Lo sviluppo del continente africano è una delle grandi sfide per il prossimo futuro. Il Piano Mattei, al riguardo, è entrato prepotentemente nell’agenda politica dell’attuale governo italiano.
Il Piano prevede interventi multifunzionali che spaziano fra energia, agricoltura, uso razionale dell’acqua, infrastrutture, salute e formazione.
Il 6 luglio 2025 è stato firmato un accordo, con il governo di Algeri, per realizzare un progetto di agricoltura rigenerativa che interesserà 36000 ettari di territorio algerino. Il progetto, assegnato alla Società Bonifiche Ferraresi, prevede la realizzazione di una filiera produttiva per coltivare grano e legumi.
La filiera vedrà la realizzazione di un impianto di irrigazione a goccia, di fabbricati per la lavorazione dei predetti generi alimentari e di silos per il loro stoccaggio.
Sulla carta si presenta come un esempio di convertire le parole in fatti concreti.
Prima, però, si rende necessario cercare di capire se sarà in grado di rispondere alle reali criticità del continente africano: si seguirà un approccio conoscitivo che, seppure limitato all’Algeria, adotterà una metodica d’indagine che si può adattare in tutto il continente.
L’Africa è un continente in continuo divenire e l’antropologia sociale ha subito radicali cambiamenti nel tempo.
La società africana fino al colonialismo era una gerontocrazia: i componenti dei clan erano divisi per fascia di età dove il consiglio degli anziani deteneva il potere decisionale, mentre i giovani si sottoponevano a processi di iniziazione per diventare guerrieri, a cui era demandato il compito di proteggere la comunità.
Era un modo estremamente pratico per dare stabilità sociale: i giovani nel tempo sarebbero diventati anziani e, come tali, i futuri componente del consiglio.
L’”ubuntu” è un’antica etica sociale africana incentrata sulla lealtà nelle relazioni interpersonali che si basa sul detto:” Io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo “.
Esorta al rispetto reciproco e a prendere coscienza non solo dei propri diritti ma, soprattutto, dei propri doveri generazionali: le giovani generazioni sapevano bene quali fossero i loro compiti nella comunità di appartenenza e ciò dava stabilità sociale.
Alla fine del colonialismo si avanzarono nuove ideologie, quali il panafricanismo, la negritudine, il socialismo africano, l’appartenenza ad una nazione che, benché unissero popoli e non più solo clan, portavano con sé un sentimento di appartenenza comunitaria.
Erano ideologie nate dal desiderio di sentirsi padroni del proprio futuro da parte di chi si era liberato dal giogo coloniale, che si esplicitava in vari modi: ai due estremi c’erano il senegalese Senghor, che ambiva ad un sincretismo fra la cultura tradizionale africana e quella occidentale, e Fanon fautore della lotta di liberazione totalmente svincolato dai modelli coloniali.
In mezzo una moltitudine di variegati approcci politici.
Il periodo delle indipendenze nei vari Stati africani é stato contrassegnato da una corsa ad ostacoli fra la necessità di sentirsi rapidamente una nazione autosufficiente e il desiderio di assecondare le aspettative delle giovani generazioni e dell’uguaglianza sociale.
Il fallimento delle suddette aspirazioni si è concretizzato nelle rivolte delle primavere arabe, ma l’aspirazione, fra i giovani, di un reale cambiamento non è mutata anzi è aumentata.
Giovani generazioni che hanno sempre rappresentato la maggioranza della popolazione, attualmente rappresentano oltre il 60% degli abitanti del continente.
Oggi, purtroppo, i giovani africani sono delusi dai loro rappresentanti al potere e, nelle abbandonate zone rurali, non si sentono neppure più tutelati dalla tradizionale struttura clanica, che fino all’avvento del colonialismo offriva certezze e protezione alternative.
I mezzi di comunicazione (vero spauracchio per i governi al potere) hanno evidenziato le evidenti differenze con il mondo occidentale: carenza di opportunità, di accesso al welfare, all’istruzione, alla salute e ad una alimentazione adeguata.
L’avvento di rapide indipendenze non ha concesso, neppure a capi di Stato virtuosi, di potere fare fronte, alla caduta del muro di Berlino, con opportune politiche sociali, alla velocità delle regole del libero mercato.
Gli accadimenti che si sono succeduti in quel periodo, nelle zone rurali, hanno instillato nei giovani il desiderio di svincolarsi autonomamente dalla quotidianità nella sicura vita, ma assolutamente priva di opportunità, della famiglia tradizionale.
Si sono, quindi, urbanizzati rompendo le relazioni fra generazioni: nei centri urbani la famiglia tradizionale allargata viene sostituita dal nucleo familiare parentale.
Il problema è che i giovani, non trovando neppure nei centri abitati opportuni sbocchi alle loro necessità, concepiscono la migrazione come se fosse un processo di iniziazione individuale, non più legato alle tradizionali classi di età, ma concepito come l’unico modo per prendere in mano il proprio destino, alla ricerca di un futuro migliore.
L’unica alternativa che hanno alle migrazioni è quella di cedere alle sirene dello jihadismo o di diventare ribelli, non per convincimento religioso o politico, ma per sentirsi qualcuno in un territorio privo di opportunità.
Nel 2050 ci saranno due miliardi di africani, più della metà giovani che, attraverso i mezzi di comunicazione nelle zone urbanizzate oppure ascoltando la radio nelle zone rurali, sono ben consci della velocità del mondo globale e conoscono perfettamente quello che c’è fuori dallo loro “porta” e, stanchi di guardare il mondo con gli occhi dei bianchi, vogliono conoscere in prima persona il mondo.
La globalizzazione iperliberista con la sua cultura materialistica ha definitivamente cambiato il modello di riferimento dei giovani africani, non più la nazione, l’etnia, il gruppo tradizionale ma l’individuo fine a se stesso, costi quel che costi.
Se vogliamo combattere le migrazioni questa è la cruda realtà in tanti paesi africani, alla quale bisogna fare assolutamente riferimento.
Ora, se con il Piano Mattei non si accetta la sfida del grande problema dei giovani africani e del loro futuro, non riusciremo a risolvere il problema delle migrazioni.
Dobbiamo essere consapevoli che l’Africa ha bisogno di piani efficaci e pragmatici e non è più il tempo dei paternalismi e delle imposizioni.
É necessario aumentare la resilienza del continente nelle dispute economico finanziarie scatenate dalla globalizzazione.
A questo punto s’impone una attenta disamina dello sviluppo economico in Africa per cercare di capire dove è necessario intervenire per rendere il continente un interlocutore delle superpotenze economiche, con pari dignità.
L’attuale scenario geopolitico vede il mondo occidentale, che in ordine sparso è più preoccupato a contrastare, ad esempio, l’accesso alle materie prime della Cina o anche quello militare della Russia oppure, per motivi politici interni, l’emigrazione verso l’Europa, piuttosto che mettere in pratica efficaci programmi di cooperazione che spengano sul nascere il disagio giovanile.
Prima di entrare nel merito dei problemi da risolvere, va detto che anche la composizione geografica dell’Africa rende ancora più difficile la loro risoluzione: il continente è composto da 54 Paesi di cui 16 senza sbocchi al mare, rendendo estremamente complesso trovare sinergie comuni.
È molto più facile, quindi, per tutti i governi interessati alle ricchezze dell’Africa prendere accordi bilaterali con i suoi singoli Paesi.
Andiamo per ordine.
Finito il periodo della “ubriacatura indipendentista” i Paesi africani hanno dovuto affrontare gli shock economico-finanziari degli anni 70 e 80 del ventesimo secolo, che hanno provocato il loro pesante indebitamento.
La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno concesso finanziamenti ai Paesi africani in crisi vincolandoli ai Piani di Aggiustamento Strutturale, che si prefissavano di stabilizzare il loro contesto macroeconomico.
Questi prevedevano il drastico ridimensionamento della spesa pubblica a vantaggio del privato, senza considerare minimamente le condizioni socioeconomiche locali, con pesantissime negative ricadute sul welfare, sulla sanità, sull’istruzione, sull’accesso all’energia, sulle infrastrutture ….
L’imprenditorialità privata, soprattutto internazionale, ma anche quella locale che, seppure allo stato larvale, cominciò a formarsi in Africa in quel periodo storico, furono le uniche a beneficiare di quel piano di finanziamento evidenziando una evidente dicotomia: chi possedeva già delle armi poté far fronte alle criticità macroeconomiche del momento accedendo al credito per sostenere le proprie attività mentre i più bisognosi furono tagliati fuori.
I settori che non poterono più accedere al sostegno pubblico furono quelli dell’agricoltura, dell’allevamento, della manifattura.
Quelli elencati furono e sono tuttora i settori prioritari in Africa, perché parti di filiere produttive ad alta intensità di manodopera, che producono per il mercato interno.
Ora, per costruire un modello progettuale, che aiuti veramente l’Africa, è indispensabile capire cosa funziona e cosa non funziona nel suo sviluppo economico:
Lo sfruttamento delle risorse naturali richiede alta tecnologia e investimenti di capitali con scarse ricadute sulla manodopera.
È soggetto alla volatilità del mercato e, al riguardo, anche la Banca Mondiale invita i Paesi dipendenti dalle materie prime a diversificare la propria economia.
Nei processi di prospezione ed estrazione spesso si verificano effetti negativi sull’ambiente.
Si alimentano fenomeni di corruzione per cui l’abbondanza di materie prime non ha ricadute positive sul tessuto sociale giustificando il detto:”la povertà nell’abbondanza “.
Si tratta, in ultima analisi, di un settore da regolare per impedire le esternalità negative rappresentate dagli interessi delle grandi multinazionali e dei governi stranieri.
Si potrebbe anche aumentare l’occupazione se la trasformazione delle materie prime grezze avvenisse in loco e non all’estero.
La telefonia mobile e i servizi bancari mobili ( il sistema MPESA) stanno avendo una grande diffusione tale da favorire un maggiore richiesta di manodopera.
Sono sicuramente i due ambiti in cui l’Africa può registrare enormi sviluppi, non solo tecnologici ma anche occupazionali.
Il settore agricolo, in Africa, pur occupando la percentuale più alta di manodopera non è tuttora il settore trainante dell’economia africana.
La filiera agroalimentare è quella che necessiterebbe di maggiore aiuto per le numerose carenze che ne inficiano le potenzialità per gravi mancanze nella catena produttiva: scarsa tecnologia per un utilizzo razionale dell’acqua nelle zone legate alla periodicità delle piogge, scarse infrastrutture sia nel ciclo produttivo che nei trasporti, scarsa capacità di adattamento al riscaldamento climatico, carenza di infrastrutture per lo stoccaggio e per la trasformazione delle derrate alimentari.
Il problema, però, è anche politico perché molti governi, non solo non sostengono con adeguate infrastrutture e imput di varia origine le coltivazioni, ma concedono, con il land grabbing, vaste fette di territori a multinazionali o a governi stranieri.
Ciò è facilitato anche dalla mancanza di titoli di proprietà da parte di coloro che usano la terra consuetudinariamente.
Purtroppo, ancora oggi, la produzione agricola africana non solo non genera sufficiente valore attraverso le esportazioni ma, spesso, non assicura neppure la sicurezza alimentare interna.
L’ Africa non ha solo enormi giacimenti di petrolio, gas, uranio, terre rare, coltan…. tutte risorse sulle quali si scatenano gli appetiti di più pretendenti, ma ha anche enormi potenzialità nello sviluppo di energie rinnovabili, quali il solare, l’eolico, l’idroelettrico e il geotermico.
Mancano, purtroppo, le infrastrutture per distribuire l’energia sul territorio, soprattutto nelle zone rurali, per cui si rende necessario utilizzare impianti mini rids nelle zone carenti.
Il continente africano, purtroppo, ha tutt’ora gravissime carenze nel welfare anche per contingenze esterne (alto debito estero che distoglie risorse).
L’ istruzione e la sanità, se non ci fossero istituti religioni che vi provvedono, verserebbero in condizioni gravissime per lo scarso finanziamento pubblico, non solo per carenze infrastrutturali ma anche di insegnanti.
Nel 2024 un documento della Banca Mondiale sottolinea, per combattere la povertà, la necessità di un aumento generalizzato del tasso di occupazione, ed ogni intervento, nei vari settori produttivi, deve accompagnarsi ad interventi in capitale umano (sanità, istruzione).
Le opere infrastrutturali sono altrettanto indispensabili quanto gli interventi nel welfare.
Non bisogna realizzare solo grandi opere ma, soprattutto, quelle di collegamento, ovvero strade intermedie che permettano di congiungere le vie di comunicazione principali, non solo all’interno dei paesi singoli, ma anche fra questi e i confinanti, per collegare da nord a sud e dall’Oceano Indiano all’Oceano Atlantico l’intero continente.
Occorre aumentare la presenza di piccoli aeroporti interni e di porti per aumentare la disponibilità di punti di approdo e di partenza per merci e uomini.
Tutto estremamente importante, ma, per fare seguire alle parole i fatti, andiamo ad analizzare pragmaticamente l’attuale realtà sociale africana, per evidenziare quali sono i problemi che si frappongono alla realizzazione dei suddetti intenti.
La stragrande maggioranza della popolazione africana, circa l’86%, si sostiene con attività informali, soprattutto con l’agricoltura, dove la percentuale sale ad oltre il 90%.
Anche se l’informalità dovrebbe diminuire con un aumentato livello di scolarizzazione, nei paesi africani non sempre il completamento degli studi assicura l’accesso a lavori formali.
La Banca Mondiale, quindi, si limita ad evidenziare un’ovvietà: non spiega come risolvere il problema e non è la sola in questo atteggiamento, come questa fanno tutte le istituzioni governative internazionali: il lavoro informale, sia quello rurale che quello urbano, dove sono presenti miriadi di micro attività, non genera stabili entrate fiscali a differenza del lavoro formale regolamentato che tramite le esazioni sostiene il welfare, la creazione di infrastrutture, l’accesso all’energia.
Oltre alla sostenibilità della spesa pubblica, però, ogni Stato africano deve fare i conti, come già detto, con il debito estero, esploso durante le crisi finanziarie degli anni ‘70 e ‘80 e continuato poi con l’inflazione interna.
Finché il debito estero assorbe, anche solo per pagare gli interessi, una buona parte delle entrate fiscali non si riuscirà, pure nei paesi con governance democratica, a destinare quanto dovuto allo sviluppo interno.
Si impone, quindi, che i creditori internazionali riconoscano una cancellazione, anche parziale, del debito stesso oppure, nella peggiore delle ipotesi, devono ridiscutere le condizioni di restituzione.
Oltre al quadro macroeconomico, quello che sarebbe auspicabile nei paesi africani è anche la stabilità politica e la sua sicurezza: se assicurate rendono più facile, per il paese beneficiario, l’accesso ai finanziamenti internazionali.
Purtroppo, l’auspicabile good governance non potrà essere imposta, come conditio sine qua non, per ottenere aiuti internazionali finché, nei paesi governati da autarchie, non ci saranno più governi esteri interessati a politiche win-win, che assicurano anche la non ingerenza nella politica interna nei paesi beneficiari dei loro finanziamenti.
Altro problema da risolvere, per aumentare la sostenibilità della spesa pubblica, è diminuire le importazioni.
Per farlo è necessario sostituirle con produzioni interne, quindi realizzare industrie, infrastrutture di produzione energetica e di trasporto interno, manodopera specializzata ecc. ecc.
Su questi temi torneremo più avanti quando parleremo degli accordi fra Stati africani confinanti e dei piani della Unione Africana che unisce tutti gli Stati.
Torniamo ora al contesto finanziario per cercare di capire come trovare il denaro necessario per avviare anche piccole e medie attività, tali da incrementare stabilmente il PIL interno e, di conseguenza, quello pro-capite, che è lo specchio del potere di acquisto.
É indispensabile creare una classe media senza la quale i paesi africani saranno sempre più vittime delle turbolenze finanziarie internazionali.
Si potrebbe subito favorire lo sviluppo economico dell’Africa attraverso l’aumento della produzione agricola e di manufatti per il mercato interno, regolamentandola, con conseguente aumento dell’impiego formale.
Questa stabile trasformazione economica riduce la sussistenza nelle zone rurali ed urbane e si accompagna anche ad uno sviluppo sociale: promuove la creazione di un ceto medio che, attraverso la richiesta di stabilità politica, può incidere sulle decisioni dei governi e, conseguentemente, sui processi di formazione di democrazie liberali.
Sarà necessario, per rendere strutturali queste trasformazioni economiche, aumentare la possibilità di accedere al credito per creare un più ampio reddito tassabile, per aumentare il capitale umano (con l’accessibilità a scuola e sanità), che renderà sempre più resiliente l’economia africana.
Ecco perché le probabilità di successo dei progetti di sviluppo economico dipendono molto dal contesto-Paese in cui si vuole realizzarli, dalla sua sicurezza interna, dalla sua stabilità politica e macroeconomica, dallo stato delle infrastrutture, dall’accesso all’energia.
Quelle elencate sono criticità endogene a cui dobbiamo aggiungere ultimamente quelle esogene, ovvero quelle legate all’aumento del riscaldamento globale, a pandemie o a crisi finanziarie globali, alle quali i Paesi africani non sono in grado di rispondere.
Sono questi gli aspetti su cui l’azione del Piano Mattei deve essere indirizzata, adottando il ricorso a tutti gli strumenti finanziari disponibili: il Fondo italiano per il Clima, la partecipazione a investimenti di imprese italiane all’estero supportate dal SIMEST oppure l’export credit di SACE.
Il Fondo italiano per il Clima è uno strumento per finanziare progetti a protezione del clima e dell’ambiente.
SIMEST è una società che fa capo alla Cassa Depositi Prestiti che sostiene la crescita e la competitività delle imprese italiane all’estero tramite finanziamenti agevolati, partecipazione al capitale d’impresa e supporto alle esportazioni.
SACE assicura i rischi a cui sono esposte le aziende italiane nelle transazione e negli investimenti all’estero.
Il progetto, assegnato alla società Bonifiche Ferraresi, firmato con il governo algerino, di cui abbiamo fatto menzione all’inizio dell’articolo, risponde a molte criticità nella sua realizzazione: il settore agricolo, in molti Paesi africani, è, infatti, dipendente dall’andamento stagionale delle piogge, i terreni sono spesso degradati, il 30/40% del prodotto viene perso per mancanza di silos di conservazione e per gravi carenze infrastrutturali nei trasporti; il cambiamento climatico è destinato ad aggravare la situazione con pesanti conseguenze sulla crisi alimentare, causa di denutrizione e malnutrizione.
Il punto negativo del Piano Mattei è che si tratta di accordo governo-governo con una limitata rappresentanza di coloro che veramente l’Africa la conoscono e ne comprendono il sistema politico, culturale ed economico.
Il Piano Mattei, nato per trovare una soluzione alle emigrazioni e alla reperibilità di risorse energetiche dopo la guerra in Ucraina ( il petrolio e, soprattutto, gli enormi giacimenti di gas presenti in Algeria, in Egitto, in Mozambico e, ultimamente, in Tanzania) ha un approccio prettamente politico, con il rischio di dissipare le energie e i finanziamenti su progetti che, come successo in passato, non sono in grado di assicurare i risultati sperati.
Ecco perché è altamente auspicabile rendere le associazioni e le ONG, che operano da tanto tempo in Africa, i principali interlocutori: sono capaci di veicolare le risorse a disposizione verso iniziative e progetti che realmente aumentano la resilienza e favoriscono la crescita economica del continente africano.
Non bisogna più pensare in termini di benefici elettorali ma in maniera pragmatica, con l’unico obbiettivo di aumentare le opportunità per i giovani africani, che, in caso di loro mancanza, vanno ad aumentare le fila dello jihadismo.
È un piano fattibile che potrebbe permettere l’intervento, non solo alle grandi imprese nazionali, come ad esempio la Salini Impregilo che ha realizzato l’enorme diga sul Nilo azzurro in Etiopia, ma anche delle piccole medie imprese italiane che potrebbero avere nel loro DNA, a differenza della Salimi-Impregilo, anche la possibilità di trasmettere il loro known how, tecnologico ed umano, alle popolazioni locali.
Ora analizziamo come l’Africa è mutata dopo avere perso la rendita geopolitica dovuta alle logiche della guerra fredda.
Si è assistito alla ridefinizione degli interessi delle due super potenze, protagoniste della guerra fredda e all’avvento di nuovi attori, in primis la Cina.
In questo contesto, che avrebbe potuto segnare la definitiva marginalità geopolitica dell’Africa, utile solo come fornitrice di materie prime, si è assistito, invece, alla reazione di tutto il continente che, prima con l’Organizzazione dell’Unità Africana la vecchia ( OUA) poi con l’attuale Unione Africana (UA) si è dotata di strumenti ( per l’integrazione fra tutti gli Stati, la pace, la stabilità , la sicurezza e il libero mercato continentale) per preparare l’Africa alla globalizzazione, come il NEPAD, con il quale avanzare diritti di pari dignità con le altre aree del mondo.
Molti attori internazionali, oltre la Cina, quali Russia, Turchia, India, Paesi arabi del Golfo, Corea del Sud, Brasile si stanno interessando sempre più all’Africa, in considerazione del crescente bisogno di risorse naturali e minerarie.
In questa ricomposizione geopolitica, in cui si assiste sempre più ad una de-occidentalizzazione delle politiche africane, come dimostrato dagli ultimi accadimenti in Mali e in Niger, cosa fa l’Europa?
Secoli di predazioni, di ingerenze politiche e di presunta superiorità culturale hanno risvegliato l’anelito della negritudine, che rivendica un riconoscimento pieno ad una relazione paritaria con l’Europa, che produca uno scambio economico paritario.
È incredibile come l’Europa, la culla della democrazia, debba rifarsi una verginità per non rischiare la sua irrilevanza politico-strategica nel continente.
Purtroppo, stiamo pagando le nostre responsabilità risalenti al colonialismo: gli africani si fidano più di coloro che attualmente li stanno sfruttando, ma che non hanno scheletri nell’armadio.
Ecco perché il governo italiano, con il Piano Mattei, deve veramente calarsi, con l’aiuto delle associazioni italiane presenti in Africa, nelle realtà locali, dove le criticità emergono con tutta la loro evidenza, e farsene carico nella stipula degli accordi con i governi centrali dei Paesi africani: il piano avrà successo se ci sarà piena consapevolezza delle forze vive presenti nel continente e non solo in quelle dei suoi governi.
Sarebbe assolutamente opportuno convocare ed ascoltare anche i rappresentanti delle diaspore presenti sul nostro territorio nazionale: rappresentano un punto di unione fra il nostro e il loro mondo, che, non solo contribuiscono con il lavoro retribuito al nostro welfare e, quindi, anche a contribuire ai fondi segnalati prima (SACE, SIMEST e Piano italiano per il Clima), ma potrebbero anche segnalare delle criticità nelle loro zone di origine, meritevoli di essere aiutate.
Le diaspore coinvolte potrebbero anche certificare la fondatezza dell’impegno italiano, aprendolo ad accordi più rapidi e, per loro tramite, si potrebbe riconquistare la perduta fiducia dei paesi africani.
Solo così si danno risposte concrete alle reali necessità dei paesi africani.
Se l’Europa, con l’UA, si dimostrasse un interlocutore affidabile, potrebbe essere possibile per l’Africa dare seguito ai suoi proponimenti di non farsi fagocitare dall’attuale ultraliberismo (al riguardo anche la Banca Mondiale ha riconosciuto la fallacità dei suoi primi Piani di Aggiustamento Strutturale) e dall’assalto dei paesi interessati solo a sfruttare le sue materie prime.
La UE, per arginare l’immigrazione irregolare deve rendersi conto che il registro è cambiato: l’Africa deve essere trattata da adulta e, con la cooperazione, non si deve creare la sua dipendenza dai finanziamenti esteri ma la sua autonomia operativa.
Tutto questo dovrebbe imporre all’Occidente a non avere più la bocca grande (per insegnare) e le orecchie piccole (per ascoltare), ma dovrebbe comportarsi esattamente all’opposto.
La “maledizione delle risorse” che ha, finora, generato povertà nell’abbondanza deve trasformarsi in una “benedizione” e agire come leva per lo sviluppo africano, spegnendo sul nascere il fuoco sotto la pentola che fa bollire l’ “acqua” delle rivendicazioni violente.
Si deve aiutare a trasformare il lavoro informale, che oggi rappresenta l’ossatura della società africana in germogli della sua futura crescita.
I 5,5 miliardi di euro previsti dal governo italiano per il quadriennio rimangono molto limitati rispetto ai bisogni dell’Africa
Ciò non toglie che, per suo tramite, il Piano Mattei può diventare la chiave per ampliare la disponibilità di nuove risorse finanziarie e/o diventare un esempio per uniformare le politiche di cooperazione europea.
Ci potrebbe essere anche una importante sinergia con il Global Gateway, il progetto europeo, lanciato nel 2021, che si pone come obbiettivo quello di realizzare infrastrutture nei paesi in via di sviluppo.
Il suo intento è quello di contrastare la via della seta cinese.
L’intento del progetto è quello di creare legami reciproci fra UE e Africa e non dipendenze come si verificano con i progetti cinesi: questi ultimi concedono prestiti per la realizzazione delle infrastrutture che, se non restituiti, diventano loro proprietà; è così che degli asset strategici, quali i porti, diventano cinesi.
Quello del debito estero è veramente un grande problema e, al riguardo, la rete LINK 2007, che unito il patrimonio conoscitivo delle 15 più famose ONG italiane, ha avanzato una proposta durante la presidenza italiana del G7, che prevede la riduzione, anche parziale, del debito con la creazione nei paesi debitori di un fondo, di pari entità, in valuta locale da destinare allo sviluppo interno.
Un fondo gestito, a garanzia, anche dal paese creditore.
Con questa procedura, si eviterebbe anche il sempre più frequente rischio di default, che incombe su vari Paesi africani.
Quello che emerge in tutta la sua evidenza da questa disamina, che vede l’Africa al centro della competizione geopolitica per l’accesso alle sue materie prime, è la necessità di evitare la continuazione della “ maledizione delle risorse”, che perpetua la corruzione, la persistente economia informale, la dipendenza dalle importazioni con conseguente aumento del debito estero con ulteriore diminuzione della spesa pubblica; tutte cause della persistente recrudescenza dei problemi degli ultimi.
Ogni cooperazione, ovviamente, ha un costo ma, mentre si destina il 5% del PIL alle spese per la difesa NATO, ci si dimentica di raggiungere l’obbiettivo dell’0’70% del reddito nazionale lordo da destinare nella cooperazione allo sviluppo.
In Italia, questo impegno si è ridotto allo 0,27%, includendo in esso anche le spese sostenute per il controllo alle migrazioni, che nulla hanno a che vedere con la cooperazione.
Va detto anche che il Fondo italiano per il Clima, che viene finanziato con 3 miliardi viene erogato sotto forma di prestiti agevolati, quindi con tassi d’interesse che, benché a lungo termine, devono essere restituiti, per cui incidono anche questi sul debito di paesi africani a rischio default.
L’ Unione Africana, il corrispettivo della nostra UE, è ben conscia di tutte queste difficoltà e sta cercando sempre più di promuovere l’integrazione continentale con l’intento di sviluppare una industria in grado di diminuire le importazioni con i prodotti locali, di diversificare i mercati regionali e di mirare ad un libero mercato continentale a beneficio degli scambi fra le economie nazionali.
Questo è il terreno dove le politiche europee, compreso il Piano Mattei, devono “seminare” le loro azioni.
È indispensabile, però, non ascoltare la voce delle elite africane, con le quali trattare lo scambio reciproco d’interessi politico economici, ma quella dei giovani africani, che chiedono il rispetto dei loro diritti, quali lo sviluppo e la possibilità di avere opportunità.
Si deve ricordare che la internazionalizzazione economica e la cooperazione allo sviluppo, spesso se non sempre, non perseguono gli stessi obbiettivi.
Il Piano Mattei dovrebbe avere la coerenza di perseguire invece uno sviluppo economico che associ la crescita dei paesi africani con uno sviluppo locale sostenibile, con la creazione di una occupazione dignitosa e con il rispetto dell’ambiente.
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